Il suo nome era Penelope. Capelli lunghi, biondi e lisci,
quasi da sembrare una principessa. Due grandi occhioni azzurro cielo e un
nasino perfetto. Labbra carnose e rosse,
lucide, che spesso iniziava a mordere, quando era nervosa.
Aveva qualche chilo in più, fatto che le dava un certo fastidio, quasi enorme. Odiava il suo corpo grosso, la
sua altezza, tutto quello che poteva vedere una volta presentatasi allo
specchio.
Il suo aspetto la faceva strana,
diversa dagli altri. Tutti noi siamo unici, differenti per aspetto e carattere,
ma la sua diversità per lei rappresentava la sua tortura.
A scuola tutti quei ragazzini la consideravano “brutta”, “racchia”, “cicciona”…
a casa, a sua volta, veniva picchiata da suo padre, o patrigno, ormai non ne
era sicura.
Per la cronaca, Penelope fu adottata da una coppia di coniugi, Agatha e Stephen
Justice, che avevano oltrepassato la
mezz’età e che non potevano avere figli. Avevano deciso di avere una bambina e,
siccome i loro corpi erano incapaci di farla nascere, decisero di tentare la
sorte e adottarla dal vicino orfanotrofio.
All’inizio era una bambina felice: avrebbe ottenuto tutto quello che avesse
desiderato.
All’età di otto anni, però, iniziò la sua sofferenza.
Per miracolo della natura, nacque Catherine, la sua sorellina, ma quello non
era il problema che la turbava. Alcuni anni dopo la sua nascita, suo padre fu
licenziato, cosa che lo portò a diventare un alcolizzato che avrebbe fatto di
tutto per avere una bottiglia di whiskey in più.
La sera, ormai calata la notte, sarebbe entrato nella stanza di Penelope o
della moglie e avrebbe iniziato a scaricare tutta l’energia che si fosse
accumulata nel suo corpo, picchiandole a volte con le mani nude, a volte con la
cintura o qualsiasi cosa gli fosse capitato per mano. Spesso, non erano solo
botte a lasciare cicatrici perenni; si intrufolava, ubriaco, in cerca di
qualcosa in più.
Non potevano denunciarlo: non avrebbero avuto dove andare e la paura che
potesse prendersi Catherine costringeva Agatha a vivere in quella maniera,
nascondendo le ferite e stando in silenzio.
Penelope non capiva il senso delle azioni di quell’uomo. Che
senso ha iniziare a picchiare la donna che ha amato tanto da chiederla in
sposa? E poi la figlia, adottiva, ma pur sempre sua?
Non poteva dirlo, a nessuno.
Non ne parlava nemmeno con la madre. Gli
sguardi pieni di sofferenza e di dolore, le urla soffocate durante le notti,
erano sufficienti.
Si limitava a scriverlo. Aveva una specie di diario su cui annotava i propri
pensieri e le sue emozioni, che custodiva gelosamente e che portava con sé da
ogni parte.
Se non incideva parole d’inchiostro nero su fogli bianchi, di sovente bagnati
da lacrime infinite, cominciava a suonare quello strumento che, attraverso
illimitate melodie, composte da note che unite parevano farla sentire meglio,
sembravano suonare la sua storia: il pianoforte. Questo, tuttavia, non le era
sempre permesso, dal momento che suo padre non lo sopportava e lo trovava
inutile.
Allora, che le rimaneva? Piangere, soltanto piangere in silenzio e lasciare che
le lacrime senza fine le bagnassero il viso.
Per una normale ragazza di quindici anni, tutto ciò era impossibile Altro che
piangere! Loro uscivano in discoteca, ridevano con le loro amiche e si
innamoravano di ragazzi che sembravano personaggi famosi.
Lei, però, non poteva permetterselo. Lei non era una tipica quindicenne la
quale camminava a testa alta accanto ai suoi amici.
Lei era Penelope, la ragazza dal volto rigato di
lacrime.

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