lunedì 25 febbraio 2013

CAPITOLO 6: PENELOPE, LA RAGAZZA DAL VOLTO RIGATO DI LACRIME



Fuori città, su una collina che distava sì o no cinque- sei chilometri dal centro, v’era collocato un monastero, costruito probabilmente qualche decennio prima che questa storia avesse inizio.
La collina, di modesta altezza, non era altro che l’anticipazione di una catena montuosa che sorgeva non molto lontano da lì.
Era difficile, per le vecchie monache che lo abitavano, raggiungere la città, così, nel week end, alcuni ragazzi volontari si offrivano ad accompagnare i più grandi dell’orfanotrofio a fare le spese. Fra di loro, c’era naturalmente Penelope.
Che ella lo facesse perché anche lei, un tempo, era una di quei ragazzini, era piuttosto chiaro. E nessuno si poteva opporre al suo desiderio di aiutare i bambini, soprattutto quelli piccoli, a passare le loro giornate e a rompere quella monotonia che erano soliti vivere all’orfanotrofio.
La domenica mattina si recava dalla suora Angelina, che le assegnava diversi compiti, a seconda del bisogno.
Non erano tanti coloro che erano disposti ad aiutare le povere monache, tantomeno a visitarlo per adottare un bambino. Il loro, per alcuna gente del popolo, era definito un lavoro illegale, ma le suore e i più fedeli al cattolicesimo interpretavano quell’istituzione come sola e unica volontà di Dio.
Quel giorno, dunque, testimone del rapido arrivo dell’autunno, Penelope s’era recata, come al solito, all’orfanotrofio la mattina presto.
Non appena fu arrivata a destinazione, notò una strana macchina, apparentemente molto costosa; non aveva mai avvistato niente del genere davanti a quell’abbazia.
Si recò dentro, intenta a raggiungere la sala dove la suor Angelina era solita risiedere, ma vide due insoliti ospiti.
-         Mi scusi…- esclamò.
-         Niente cara, prendi questo.- disse l’anziana, facendole il cenno di andarsene.
In quella stanza, seduti su due sedie di legno abbastanza antiche, v’era una coppia di coniugi, che parevano aver superato entrambi la trentina d’anni.
Dalla parte sinistra, accanto alla parete, v’era seduta la donna, dal nome Jessica, una fanciulla di una modesta ma comunque esposta bellezza.
I lunghi capelli color rosso scarlatto le arrivavano fin sotto le spalle, mentre una frangia obliqua le nascondeva delicatamente la fronte.  Negli occhi, di un verde oliva, lampeggiava  una certa tetraggine, una certa cupezza, che si abbinava perfettamente alla borsetta di pelle nera che teneva fra le mani.

I vestiti che indossava erano tutti costosi ed accurati, soprattutto il ciondolo d’oro a forma di “J” che portava intorno al collo e il braccialetto sulla mano destra.
L’uomo accanto a lei, era seduto in modo assai inappropriato, che dalla sua posizione poteva dedursi che si trovasse in un’osteria e non in un luogo pio come quello.
Con lo sguardo trasmetteva alla donna davanti a lui un’ incontrollata quantità di strafottenza, accompagnata da una smorfia simile a un sorriso, dalla quale si potevano scorgere i bianchissimi denti.
La barba e i capelli neri contrastavano con il colore chiaro degli occhi dell’individuo, mentre nella mano giocherellava oziosamente con il portachiavi della macchina, non badando neppure al discorso che si stava sviluppando velocemente intorno a lui.
-         Ecco, vede, quindici anni fa ero venuta qui e avevo…-
-         Mi spiace signora, sono passati più di quindici anni, anche se ci fossero stati dei documenti, sono probabilmente stati perduti.-
-         Lei non mi segue, madre. Di documenti non ce ne sono stati, perché ho lasciato la bambina… -
-         Io capisco cosa mi sta spiegando, ma…-
-         Lei può o non può aiutarci?- interruppe bruscamente l’uomo, che fino ad allora s’era tenuto a parte dalla discussione.
-         Max!- lo zittì la donna.
-         Io… vedrò cosa potrò fare.- concluse l’anziana, non tanto convinta delle parole che stava pronunciando.
La coppia si alzò, diretta verso l’uscio.
Penelope, non appena udì i passi dei due coniugi, fece due passi svelti e si allontanò dalla porta il più veloce possibile.
Qualcosa non la convinceva riguardo a quelle due persone e al loro quasi aggressivo  dibattito . Doveva scoprirlo al più presto, anche se era consapevole che ciò avrebbe portato enormi sacrifici.


venerdì 1 febbraio 2013

5° CAPITOLO: PENELOPE, IL RAGAZZO DAL VOLTO RIGATO DI LACRIME


“Ne vale la pena vivere, piangendosi addosso?”
27 settembre
Caro diario,
negli ultimi giorni mi sento… benissimo direi. Nemmeno Lui aveva potuto rovinare quest’umore. Ho un occhio nero e blu, ma se dovessi essere sincera, ho una maglia che si abbina a questo colore: questo spiega che non è riuscito a uccidere quel poco di positivismo che si nasconde nel profondo della mia anima, se già ne ho una.
In un certo senso, quell’angoscia che provo non appena si intrufola nella mia stanza, e il dolore che ne segue, (te ne sei già avveduto del modo), mi aiuta a farmi comprendere che, in effetti, sono viva.
Se c’è una cosa per cui ringrazio Stephen, è proprio questa. Se lui non avesse iniziato a farmi del male, probabilmente avrei iniziato a farlo da sola da un bel pezzo. Sentirmi viva, di nuovo, facendo dei tagli orizzontali sul braccio sinistro e poi su quello destro, facendo sparire tutto quello che si nasconde dentro di me, tutto quello negativo, che inizia a mangiarsi lentamente, all’inizio solo il mio cuore, e poi il resto dei miei organi interni.
Ho un nuovo amico, il mio primo amico. Si chiama Matthew, letteralmente “il dono di Dio”.
Non so se potrei definire il nostro “rapporto” una vera e propria amicizia, dal momento che lo conosco da una settimana scarsa, ma con lui mi sento bene. È l’unico che mi è stato accanto in questi giorni,  per la verità è l’unico che mi è stato accanto in generale.
 Amo i suoi occhi, che cambiano a seconda della luce: a volte sono blu scuro, a volte verde oliva, a volte grigi. Sembrano gli occhi di un angelo sceso dal cielo.
Se dovessimo evitare questa pateticità, come direbbe Stephen, ho sempre amato guardare la gente negli occhi, di sovente non riuscendoci. Non è così facile affrontare lo sguardo di qualcuno, sottometterti a quello che prova, che pensa, a quello che lo sguardo in sé riesce a trasmetterti. Poiché, ogni sguardo è diverso, ma di certo è il modo di comunicare più onesto e sincero, migliore di tutte le parole che potresti trovare. Il suo incute una certa pace, che inizia a divorare il male che si nasconde dentro di te, facendoti diventare felice all’improvviso.
Ho raccontato a mamma di Matt, della nostra amicizia, dei suoi occhi. Ha sorriso, un sorriso  innocente, vero, che agli estranei potrebbe sembrare soltanto come una piega della bocca, ma non è così. Vedi, caro diario, lei non sorride spesso: farei fatica a ricordarmi quand’era l’ultima volta che l’ha fatto.
Mi domando quando sarà la prossima volta che la vedrò sorridere e se lo farà mai di nuovo.
Tuttavia, penso che tutte queste previsioni e domande sul futuro siano piuttosto inutili: ti illudono completamente, ed è un modo più lento di autodistruggersi.
Bisogna vivere oggi, imparando dagli errori commessi ieri e non preoccuparsi per domani.
E io, insomma, io oggi potrei essere definita soddisfatta, se non felice. Anche se ho paura che anche la felicità sia un inganno, che corroda il cuore e faccia perdere la mente, che crei una forte dipendenza e che poi ti lasci senza un briciolo di speranza.
Ma se è questo che comporta la felicità, ne vale la pena vivere piangendosi addosso?
È il dilemma che mi tortura quest’oggi, del quale non penso esista una risposta concreta: ognuno di noi può interpretarla come vuole, ma essa avrà sempre un pizzico di male o bene.
Con questo ti saluto, caro diario, lasciando anche te nel dubbio di scoprire i segreti della vita.